Mario Vattani, ex console italiano a Osaka, studioso di cultura e storia del Giappone, nel suo ultimo romanzo dal titolo “La via del Sol Levante – Un Viaggio Giapponese” Idrovolante Edizioni, 2017, pag. 226″, racconta del viaggio solitario in moto di un diplomatico italiano alla scoperta del Giappone.
Vattani sarà ospite alla rassegna culturale “I Grandi incontri di Liberal” di sabato 17 febbraio alle ore 17.30 in Sala teatro del Centro Giovanni 23mo di Belluno. Ecco qualche anticipazione della serata che che sarà moderata da Franco Tosolini, ricercatore storico, nell’intervista che segue.
Dottor Vattani, il protagonista del suo romanzo è un diplomatico in sella a una Ducati che attraversa il Giappone. L’ha fatto davvero il tour in moto in Giappone?
Ne “La Via del Sol Levante” ho voluto raccontare ciò che ho scoperto durante un lungo viaggio in moto che ho intrapreso dopo essere riuscito a trasferirmi a Tokyo nel 2003. Dalle prime pagine, il lettore si trova in sella a una delle più note moto italiane, sull’autostrada che porta verso il misterioso nordest del Giappone. E’ un’autostrada che però all’improvviso ci porta anche nel passato, dal momento in cui scopriamo un monumento italiano degli anni venti abbandonato nelle montagne giapponesi, nel cimitero dei giovani samurai della Tigre Bianca. E il viaggio allora ci riporta anche in Italia, ma è un’Italia diversa, quella dove arriviamo nel 1915, a Napoli, con Harukichi Shimoi, un giapponese appassionato di Dante che fu anche Ardito nelle trincee italiane del 1918, e finì per raggiungere Gabriele D’Annunzio nell’avventura di Fiume. Nel racconto si incontrano questi ed altri protagonisti del rapporto tra Italia-Giappone, anche un pugno di sommergibilisti italiani in Giappone, nel 1945.
E perché proprio il Giappone, cosa la lega a quel Paese?
Tra le sedi in cui ho prestato servizio, il Giappone è quella dove sono rimasto più a lungo, ed è un luogo capace di far sognare. La vita in quell’arcipelago è frutto di un equilibrio perfetto, seppur tra mille contraddizioni. Ho avuto la fortuna di attraversare quel mondo attraverso la pratica delle arti marziali, ma anche la curiosità per le arti come la cerimonia del tè, la calligrafia, l’ikebana, in cui lo spirito si fonde con l’estetica e la ritualità. Ma c’è anche il violento e severo mondo della Tokyo underground, che appare nel cinema nella fotografia, nei manga e nelle loro controparti animate. Il Giappone è una tale fucina di creatività che anche in Italia sono ormai tantissimi i giovani che nel Sol Levante trovano motivo di ispirazione. E’ stato naturale per me ne “La Via del Sol Levante” raccontare delle versioni giapponesi di me stesso ed ambientarle su uno sfondo pieno di contrasti come è quello nipponico.
Nel 1951-52 Montanelli, inviato del Corriere della Sera, fa un reportage formidabile dell’”Impero del Crisantemo” nostro alleato durante il Secondo Conflitto mondiale, proprio quando le forze di occupazione americane comandate dal generale Ridgway, successore di Douglas Mac Arthur, restituivano la sovranità a quel Paese che avevano appena fatto a pezzi con due bombe atomiche. Nel suo viaggio c’è ancora traccia di quel mondo fatto di case da tè, con le geishe e vecchie signore dal volto di gesso, le coppette di sakè e il suono dello shamizen, la chitarrina giapponese?
Quello che faccio è un percorso solitario, originale, dove tra una tappa e l’altra la narrazione si intreccia con la storia dei rapporti tra Italia e Giappone all’inizio del ‘900. Incontriamo alcuni protagonisti di questo rapporto, scopriamo l’influenza che ebbe la poesia giapponese sui versi di poeti italiani come Giuseppe Ungaretti, l’ispirazione che i pittori impressionisti trassero dalle stampe giunte dal Sol Levante. Allo stesso tempo ho voluto portare il lettore lontano da molti luoghi comuni sul Giappone, dando anche una diversa lettura del ruolo del Sol Levante all’alba del ‘900: una potenza asiatica antagonista, “pericolo giallo” per i colonizzatori occidentali, un campione della lotta dei popoli oppressi contro il razzismo e la discriminazione, una giovane nazione presa ad esempio come “champion of the darker races” addirittura dagli intellettuali afroamericani degli anni ’20. Sempre passando dal presente al passato, e viceversa, si segue il percorso delle eliche dei biplani di Arturo Ferrarin e Guido Masiero, lanciati da Roma alla volta di Tokyo nel 1920, e per fare questo alcune delle scene ci portano a cavallo tra il mondo tradizionale giapponese e le megalopoli che bisogna attraversare per lasciare la costa e addentrarsi nel Giappone meno conosciuto.
Nel romanzo c’è un riferimento a Yukio Mishima, scrittore, drammaturgo, saggista e poeta giapponese che si toglie la vita il 25 novembre 1970 a 45 anni secondo il rituale “seppuku” dei samurai, trafiggendosi il ventre e poi facendosi decapitare dopo aver letto la sua condanna alla Costituzione del 1947 e al Trattato di San Francisco che avrebbero “occidentalizzato” il sentimento nazionale giapponese. Lei, mi pare, non abbia mai fatto mistero della sua ammirazione per questa difesa delle tradizioni imperiali del Giappone. Ebbene, ha avuto delle ritorsioni nella sua vita professionale per queste sue posizioni?
Ammiro Yukio Mishima come grande maestro della parola, un uomo che ha raggiunto in quest’arte un livello altissimo. Ma si è anche dedicato all’azione, e per me rimane un esempio nel senso che ha elaborato un suo pensiero personale, libero e provocatorio, e vi ha costruito intorno la sua vita, i suoi progetti letterari, teatrali, cinematografici, movimentistici. Nessun problema professionale potrebbe mai avere in Giappone chi apprezza Mishima, il quale è considerato uno dei maggiori protagonisti della cultura nipponica del dopoguerra.
Ma è vero che in Italia mi sono a volte trovato osteggiato e criticato per una mia visione dell’esistenza umana, in particolare su due aspetti, ai quali in fondo si riferisce anche l’esempio di Yukio Mishima.
Uno riguarda l’uomo, la sua creatività, la sua ispirazione e la sua espressione artistica. A mio avviso queste non possono essere censurate, dileggiate, valutate da tribunali, comitati o commissioni, perché esse sono lontane dalle leggi degli uomini. Anzi, trovo che la fine tragica di Mishima sia il richiamo più feroce a una lotta per diventare noi stessi, essere fedeli alla nostra natura, forse l’unica lotta degna di ispirare le scelte degli uomini e orientare il loro destino, fino alla morte.
L’altro aspetto riguarda i valori. Per esempio, Mishima si è ucciso eseguendo il terribile rito del seppuku, dopo essersi legato attorno alla testa un hachimaki che recava la scritta: “Servire la Nazione per Sette Vite”.
Bene, secondo me bisogna smettere di considerare strano, insolito, se non addirittura inaccettabile, il fatto che una persona della sua intelligenza, del suo talento, della sua raffinatezza, cresciuta in un ambiente borghese, abbia scelto di dedicare la sua vita a un’ideale così chiaramente definito da quei quattro ideogrammi. Oggi questo mondo malato ha trasformato eloquenza, eleganza, educazione, in segni caratteristici di una borghesia decadente, stanca, cinica e imbelle, priva di valori.
Invece l’amor patrio, il coraggio, la disciplina, la lotta per affermare la propria identità, sono ideali positivi che vivono attraverso gli uomini e le donne che li propugnano. Se questi hanno un naturale talento, quegli ideali positivi non potranno che trarne giovamento.
Un’ultima curiosità. Lei è un appassionato Ducati? Qual è il modello protagonista nel romanzo?
Nella vita ho avuto la fortuna di possedere una Ducati Monster 900, colore nero opaco. E’ con lei che ho fatto il giro del Giappone, e tanti altri bellissimi viaggi. Ora purtroppo non c’è più, ma mi rimangono ancora il suo manubrio e il contachilometri.
Roberto De Nart