E’ di oggi la notizia che tre portaerei Usa a propulsione nucleare, 11 cacciatorpediniere con tecnologie antimissile Aegis, 7 unità navali sudcoreane, incluse due con standard Aegis, hanno iniziato le manovre nel mar del Giappone. Si tratta evidentemente di una esibizione di forza contro la Corea del Nord proprio durante la visita del presidente Donald Trump in Asia. Sull’argomento abbiamo intervistato il professor Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss “Guido Carli” di Roma e consigliere scientifico di Limes, rivista italiana di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo. Che sarà relatore a Belluno al Teatro del Centro Giovanni 23mo in piazza Piloni sabato 18 novembre alle ore 17.30 per la rassegna I Grandi incontri di Liberal Belluno per la conferenza dal titolo “IL mondo dopo un anno di Trump” con moderatore Franco Tosolini, ricercatore storico.
Professor Dottori, dal 1946 ad oggi gli Stati Uniti sono entrati in guerra una quarantina di volte, in alcuni conflitti direttamente in altri tramite la Cia. In alcuni casi si tratta di questioni geopolitiche (Vietnam) in altri casi per l’accaparramento di materie prime (petrolio nelle 2 Guerre del Golfo, Libia).
La Corea del Nord ha risorse minerarie valutate per 10mila miliardi tra grafite (impiegata nelle batterie per auto elettriche), tungsteno, oro, ferro, zinco, rame, molibdeno ecc.
La stampa occidentale dipinge il leader coreano Kim Jong-un, che ha studiato a Berna e ha due lauree, come un pazzo che minaccia gli usa con ordigni nucleari. Lei non pensa che invece stia attuando una strategia di difesa per non fare la fine di Saddam e Gheddafi?
“E’ una lettura un po’ semplificata della politica estera americana degli ultimi 70 anni. Io la vedo in maniera un po’ diversa. Fino alla caduta del Muro di Berlino, ogni impegno militare degli Stati Uniti si è inquadrato nella logica bipolare della Guerra fredda: occorreva contenere e logorare l’Unione Sovietica, contestualmente cercando di irrobustire il blocco occidentale. Alla sconfitta in Vietnam Nixon e Kissinger posero rimedio la riconciliazione con la Cina di Mao, retrospettivamente uno degli eventi più decisivi del lungo confronto che oppose Washington a Mosca. Non credo invece che gli interventi nel Golfo abbiano avuto più di tanto a che vedere con le risorse energetiche. Il petrolio si vende e si compra, ciò che conta non è possederlo, ma il prezzo al quale viene scambiato e la divisa che si utilizza per commerciarlo. La seconda guerra del Golfo, quella del 1991 (la prima fu quella combattuta negli anni ottanta da Iran ed Iraq), non ebbe per posta in palio l’oro nero, ma il nuovo ordine internazionale, che il vecchio presidente Bush senior immaginava di ricostruire intorno alle Nazioni Unite. Questo progetto venne però affossato da Bill Clinton, che preferì promuovere una politica di tutela degli interessi americani fondata sulla globalizzazione. Oggi la Corea del Nord rappresenta una sfida ulteriore e del tutto diversa: non credo che le materie prime c’entrino molto. C’entra invece il controllo della proliferazione nucleare e, soprattutto, i nuovi equilibri nel Pacifico occidentale. Non penso che la Corea del Nord possa essere denuclearizzata. Non ci sono precedenti per un’operazione del genere: la tecnologia nucleare, una volta acquisita, non si disinventa. Ma il deterrente nucleare nordcoreano può essere sottoposto a controlli e forse si punta ad un accordo in questa direzione. Se poi vogliamo tentare una lettura ancora più azzardata, uno scenario in cui si accetta che Pyongyang diventi una potenza nucleare militare indebolisce Pechino e rappresenta oggettivamente un incentivo fortissimo per Seul e Tokyo a riarmare. Il Giappone potrebbe infatti decidere di dotarsi a sua volta della bomba nucleare. A quel punto gli Stati Uniti potrebbero ritirarsi dall’area ed affidare proprio ai loro alleati regionali il compito di incapsulare non solo la Corea del Nord, ma anche la Cina. In fondo, non è ciò che Trump diceva di volere per l’Estremo Oriente durante la campagna elettorale? Quanto al leader nordcoreano, concordo sul fatto che sia perfettamente razionale. Asseconda i militari, che sono il pilastro su cui poggia il suo regime e che desiderano fortemente bombe e missili. Kim Jong-un ne gestisce le ambizioni evitando di scatenare contro il suo paese la reazione militare degli Stati Uniti. Si è rivelato finora abilissimo, alternando sapientemente provocazioni ed aperture”.
Per una strana congiuntura della storia, anche Donald Trump quando era in campagna elettorale in competizione con la Hillary Clinton, aveva circa 300 testate giornalistiche contro di lui e il ritratto che ne aveva fatto la stampa, anche quella nel nostro Paese, era quello di un bizzarro miliardario, contrapposto alla professionalità e all’esperienza della Clinton. Lei che opinione si era fatto?
“La grande stampa americana e mondiale continua ad avversare Trump, senza peraltro procurargli grandi danni. Il Presidente ha ottenuto la Casa Bianca con il 46% del voto popolare. La Rasmussen, che si è finora distinta per l’accuratezza delle proprie rilevazioni statistiche, da mesi afferma che il consenso di Trump tra gli elettori probabili oscilla tra il 42 ed il 44%. Non ha praticamente perso nulla. Per quanto mi riguarda, ho sempre preso molto sul serio la candidatura di Trump, confortato in questo dalle analisi di alcuni fra i migliori esperti di America del nostro Paese, della cui amicizia sono onorato. Il tycoon ha utilizzato contro la Clinton tecniche assai simili a quelle impiegate otto anni prima contro di lei da Barack Obama. Non è stupefacente che alla fine l’abbia spuntata”.
Il mondo dopo un anno di Trump, a suo parere, è più stabile. Oppure le aree di possibile conflitto si sono allargate?
“Il nostro pianeta non è più stabile anche perché c’è chi sta cercando di capire quanto sia forte effettivamente l’America di Trump. Ma il progetto del Presidente sta prendendo forma ed è di estremo interesse. L’obiettivo finale è ridurre l’esposizione militare degli Stati Uniti negli affari mondiali. Lo strumento per raggiungerlo è un’azione diplomatica che mira a trasferire parte delle responsabilità esercitate attualmente dall’America ad altri paesi. Fra questi, un ruolo importante dovrebbe spettare alla Russia, mentre in Medio Oriente e Nord Africa il compito di riportare l’ordine ed eliminare il terrorismo è stato affidato all’Arabia Saudita. Il nuovo principe ereditario, Mohammed bin Salman, ha avuto carta bianca e i risultati si vedono. Sul piano interno, concedendo alle donne il diritto alla patente di guida si è ridotto il potere dei religiosi. In campo internazionale si sono registrate novità non meno importanti: ad Israele i sauditi hanno ad esempio prospettato la possibilità del riconoscimento del loro stato, un fatto rivoluzionario se si tiene conto di cosa Riyadh rappresenti nel mondo musulmano. In cambio, hanno chiesto il via libera israeliano alla nascita dello Stato palestinese. Hamas si è già adeguato, recidendo i legami con la Fratellanza Musulmana per non esser tagliato fuori da questi sviluppi. Re Salman, poi, è andato a Mosca e con il probabilissimo avallo americano ha raggiunto un accordo con il Presidente Putin che concerne anche il rialzo dei prezzi del petrolio. Con il permesso di Trump, per farla breve, i sauditi hanno concordato con la Russia la fine della guerra economica combattuta negli scorsi anni contro Mosca. La soddisfazione di Putin dev’essere enorme: al sovrano saudita, infatti, ha venduto anche i sofisticatissimi missili antiaerei S400, circostanza che certamente non dev’essere stata apprezzata dagli iraniani. C’è chi crede oggi che Trump voglia una guerra contro Teheran. Io non ne sono particolarmente persuaso. Se queste fossero le intenzioni della Casa Bianca, l’America non avrebbe consentito ad Assad di vincere la guerra civile siriana. Invece, è ciò che è accaduto. Può darsi però che vengano intraprese azioni per evitare che l’Iran si rafforzi troppo in futuro, magari ridimensionando l’Hezbollah libanese o inducendo Teheran a rinunciare ai propri missili balistici. Vedremo. Sono comunque ottimista”.
Roberto De Nart